Effetti collaterali: le tartarughe e non solo...
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di Francesco Zezza

In acquario ci vivono i pesci, come ovvio. Ma ci sono anche altri animali che se non “in” acqua vivono vicino/in contatto con la medesima. Tra questi, per l’appunto, le tartarughe, intese come tali quelle marine e quelle fluviali/palustri di cui mi occuperò. Alla fine mi concederò una digressione sulle tartarughe “terricole” (più propriamente dette testuggini) e – proprio in coda – parlerò brevemente di un … “ospite a sorpresa”.

 

 

PREMESSA: le considerazioni che seguono fanno riferimento anche ad esperienze di allevamento italiane. Vivere in Africa (da oltre quattro anni, siamo nel 2017) apre spazi per esperienze altrimenti difficili da immaginare/effettuare.

Le tartarughe (palustri):

  • Trachemys scripta elegans (Red Slider) e, per estensione, tutto il genere Trachemys.

  • Pelomedusa subrufa (allevata prima in Italia, poi in Africa).

  • Trionix triunguis (in Africa, Zoo di Abidjan).

Le testuggini:

  • Geochelone sulcata (in Africa).

  • Kinixys homeana (in Africa).

  • Kinixsys belliana (in Africa).

Il … coccodrillo:

  • Crocodylus suchus (West African Crocodile o Desert Crocodile - in Africa).

Per tutte traccerò un breve profilo cui seguirà qualche consiglio di allevamento. Concluderò con qualche immagine di ognuna di loro. Orsù, dunque:

Genere Trachemys (latu sensu): “Tutti” hanno avuto una di queste piccole, simpatiche (in principio) bestiole sovente acquistata, senza la minima cognizione di causa, dai genitori per chetare il bimbo che piange. La più parte di loro faceva una misera fine per errate condizioni di allevamento e/o poca cura. Alcune sopravvivevano trasformandosi, col tempo, in bestioni da qualche chilo (ingestibili nella usuale microvasca di casa) che venivano brutalmente scaricati nel fosso dietro casa. Le sopravvissute a questa ulteriore prova si adattavano all’ambiente locale entrando in competizione con la fauna locale con esiti esiziali sull’ecosistema autoctono. La loro importazione (dagli Stati Uniti) è stata, poi, regolamentata. Aggiungo che chiudere la porta dopo che i buoi …

 

Tartarughe del genere Trachemys si scaldano al sole in una delle tante fontane di Roma.

Quanto sopra riportato è un tipico esempio di come NON si allevano le tartarughe se si ha a cuore il loro benessere. Io mi sono astenuto da simili comportamenti e nel seguito cercherò, invece, di spiegare “cosa” fare.

Pelomedusa subrufa: l’esperienza più lunga, ho allevato il primo esemplare in Italia e gli altri due qui in Africa (l’ultimo dei tre è ancora con noi). Appartiene ad un genere monospecifico diffuso, con alcune diversificazioni tassonomiche, in tutta l’Africa sub-sahariana con rinvenimenti in Madagascar, Yemen, Arabia Saudita. Il solo Ghana ne ha chiesto l’inserimento in CITES (appendice III).

Si presta bene all’allevamento in acqua-terrario poiché difficilmente eccede i 20 cm di taglia massima ma è comunque bene, per l’alloggio di un singolo esemplare, non scendere sotto una misura dello stesso di cm 100x50. In natura frequentano ambienti sempre molto caldi (anche stabilmente oltre i 30° C) ma soggetti anche a periodi di siccità.

Se allevate sempre in ambiente chiuso è fondamentale fornire – come a tutte le tartarughe/testuggini e rettili in generale – una fonte di radiazione di tipo UVB. Personalmente ho usato in Italia lampade Reptisun (radiazione UVB 5%). Sono lampade, un po’ costose ma fondamentali, che esauriscono la loro emissione UVB in alcun mesi (le sostituivo due volte all’anno): un dettaglio che non va trascurato. Nel “Continente Nero”, mi affido al sole.

Il loro allevamento ha dimostrato, in oltre cinque anni, alcune differenze rispetto a quanto si legge nei testi specializzati. Tutte si sono dimostrate fortemente acquicole: la prima ha iniziato a soggiornare ni in secco solo al raggiungimento di una taglia (quasi) adulta. Le altre si trattengono, lungamente, in acqua con apnee anche superiori ai cinque minuti. Tutte, indistintamente, sono sostanzialmente carnivore, gradiscono di tutto: insetti, molluschi, crostacei, vermi (graditissimi i lombrichi), pesci (in pezzi) e pesciolini (interi) ma si sono abituate rapidamente al mangime pellet anche se, personalmente, cerco di limitare il suo uso.

Tra loro non si notano, a livello fisico, particolare differenze e mi limito a segnalare come l’ultima presenti una pelle particolarmente chiara (alle volte sotto la luce artificiale sembra addirittura bianca) ed una forte puntinatura specie sul capo: però non saprei dire se questo significhi, o meno, l’appartenenza ad uno specifico “morph” geografico o meno.

 

L’acqua-terrario dove ho allevato la prima tartaruga cui venne dato il nome di Birba in ragione del suo carattere particolarmente “irrequieto”. Gli esemplari selvatici si dimostrano molto più schivi. Con le piante (assolutamente non necessarie, che siano acquatiche o palustri) si può tentare: non le mangiano assolutamente ma nei loro movimenti sono molto energiche, con quello che ne discende.

 

La Pelomedusa subrufa che ho, al momento, in allevamento, forse la meno “espansiva” delle tre. In foto si nota bene la particolare colorazione chiara della pelle e la sua forte puntinatura specie nella zona del capo.

Trionix triunguis: NON ho allevato personalmente questa specie ma avendo collaborato con lo Zoo di Abidjan, città dove vivo, posso fare qualche considerazione al riguardo.

È conosciuta – al pari delle altre congeneri - come tartaruga dal “guscio molle” per la consistenza del carapace che al tatto risulta simile al cuoio. Raggiunge una taglia enorme, può risultare mordace ed aggressiva (anche a taglia modesta). Gli esemplari adulti condividevano la loro area con (grossi) coccodrilli da cui sapevano, agevolmente, difendersi al punto tale da arrivare alla riproduzione. La loro scaltrezza ha consento inoltre ad alcuni nuovi nati di sopravvivere sino a quando non sono stati notati e messi “in sicurezza” (leggi allevati separatamente).

 

Esemplare adulto – sopra - fotografato a … “distanza di rispetto”.

 

 

Subadulto ripreso a secco, l’immagine consente (arto anteriore sinistro, in primo piano) di comprendere bene il nome di Trionix triunguis (Trionix “a tre unghie”).

 

 

Un nuovo nato (Marzo 2016) già a questa taglia nel tentativo di difendersi tendono a mordere chiunque abbia a che fare con loro, col crescere questa loro attitudine pugnace va gestita con attenzione.

Inizio – ora - a dirazzare, sempre di più: spero sia interessante per tutti.

Geochelone sulcata: (ma secondo alcuni da classificarsi come Centrochelys sulcata). La più grande testuggine africana: si ritiene possa arrivare ad 85 cm e sfiorare il quintale in peso. Il suo areale (riconosciuto) copre Ciad, Etiopia, Mauritania, Niger, Senegal, Sudan e Mali. Il Mali confina con la Costa d’Avorio e vista la taglia minima a cui la ho rinvenuta (he le valse in soprannome di “Caccoletta”) sono propenso a pensare ad una “fuga”, forse da uno dei tanti traffici opachi che hanno luogo qui.

Sostanzialmente erbivora (in natura) aveva sviluppato una golosità particolare per i croccantini del nostro gatto che gli contendeva, sovente, mordicchiandogli i piedi o la coda per allontanarlo dalla sua ciotola. Dal punto di vista protezionistico (CITES) è posizionata in Appendice II/Allegato B. Ha vissuto con noi alcuni anni, crescendo vistosamente, poi un brutto giorno si è ribaltata (uno delle cause di morte più frequente per una testuggine) senza riuscire a riprendere la postura corretta ed il sole ivoriano non ha perdonato.

Era una bestia intelligente che ci riconosceva al rientro a casa e ci veniva incontro anche se poi la sua forma di affettuosità consisteva nel mordicchiare (e dalli) le dita dei piedi. Nei periodi particolarmente caldi veniva a “bussare” alla porta per chiedere ospitalità all’interno dove c’è l’aria condizionata. Si è trattato di una brutta perdita che mi ha molto rattristato.

 

Gennaio 2014

 

 

Ottobre 2014, la differenza – in soli nove mesi! – si nota.

 

 

L’insalata sarebbe per la tartaruga ed i croccantini per il gatto, ma … …

 

 

Un esemplare adulto mi osserva, immobile, dalla sua tana fra le radici di un albero immenso.

 

 

Accoppiamento di Geochelone sulcata: ho avuto la possibilità di assistervi la procedura è complessa, lunga e “rumorosa” in ragione dei continui, rochi, vocalizzi emessi dal maschio.

Kinixys homeana(in inglese Hinge-Back Tortoise): popola vaste aree interne dell’Africa (Congo, Gabon, Guinea equatoriale, Cameroon, Nigeria, Benin, Ghana e Costa d’Avorio). Classificata come “VU” (vulnerable) sulla Red List IUCN ha soggiornato brevissimamente nel nostro giardino – dove è arrivata provenendo da uno dei mercati dell’interno - prima di essere reintrodotta in Natura. Bellissima ma schiva e sfuggente mi ha incuriosito molto per il particolare carapace “semovente” al posteriore (che serra per aumentare la sua protezione in caso di minaccia) ma non mi ha mai conquistato più di tanto.

 

In marcia nell’erba.

 

 

La nostra amica al peso. La freccia rossa in questo casso indica il vistoso buco praticato sul carapace per poterla appendere ad un gancio, in attesa delle operose massaie ivoriane, al banco del mercato.

 

 

Ed arriva il giorno del rilascio. Il “buco” è ancora lì ma la forma è molto migliorata, vai … BUONA FORTUNA!

Kinixsys belliana (identificazione dubbia): è l’ultima arrivata, piccolissima anche questa (nick-name: Microba). È presente in quasi tutta l’Africa Sud-Sahariana, circostanza che, alle volte, può rendere difficile la corretta l’identificazione. Predilige ambienti secchi e stepposi dove si alternano stagioni aride e piovose dalle differenze anche molto marcate. Non esistono dati precisi sulla suo stato in conservazione in Natura. La nostra mangia di tutto pur avendo una predilezione per le sostanze vegetali.

Timidissima usa nutrirsi (a differenza di Caccoletta) nelle ore più calde della giornata, preferendo non essere osservata. Punto cardine della sua dieta – anche in questo caso – è l’insalata, non si nega qualche morso di frutta mentre non degna di “un guardo” i già menzionati croccantini.

 

Dimensione (in una misurazione molto sommaria) del carapace (all’arrivo).

 

 

Una immagine ravvicinata che consente di verificare la capacità di “chiudersi a difesa”, in bella vista ci sono i “rostri” che armano gli arti anteriori.

 

 

La Microba si confronta con una abbondante dose di erbaggio fresco e ben lavato. Caparbiamente – pur con la lentezza che contraddistingue le testuggini - ne avrà ragione: spero la aiuti a crescere bene. Anche in questo caso (ritengo sia un maschio) verrà il giorno del rilascio in Natura.

Crocodylus suchus: (West African Crocodile o Desert Crocodile): l’ultima follia, anche se non è quella che diede il titolo ad un famoso film di qualche decennio addietro.

La collaborazione con un gruppo di ricercatori americani impegnati in progetti di conservazione (e re-introduzione in Natura) dei coccodrilli è stato l’elemento fondamentale delle mie attività naturalistiche in CdA ivi comprendendo quattro, differenti, spedizioni di ricerca in ambiente che mi hanno consentito di acquisire una notevole mole di informazioni (a queste “uscite” ne va aggiunta una quinta – in collaborazione con una struttura universitaria locale – di natura più “ortodossa” ed avente come obiettivo lo studio della fauna ittica delle acque interne, dolci o palustri. Ma questo è un altro discorso …).

La mia esperienza con il piccolo coccodrillo è stata breve ma interessante: Crocodylu suchus è stato, solo recentemente, riconosciuto come specie diversa, e separata, dal più diffuso Crocodylus niloticus, va anche detto che gli antichi egizi (come risulta da esemplari mummificati che sono stati rinvenuti nelle piramidi) erano a conoscenza di tale differenza! È presente – con differente numerosità - in tutta quella grande porzione del continente comunemente nota come “Africa atlantica” (ovvero quella che si affaccia sul Golfo di Guinea ed il suo entroterra). Sebbene questa specie sia più piccola e meno aggressiva del “nilotico” è opportuno prestare attenzione quando ci si muove in ambienti (ed acque) da lui frequentate.

 

Di notte, sul fiume, alla ricerca dei coccodrilli, foto scatta durante una delle mie missioni (Fiume Comoe).

E veniamo a Cocco Bill: è stato con noi alcuni mesi (mi è stato successivamente rubato e temo sia divenuto il pasto di qualche affamato locale). Venne alloggiato in uno dei laghetti del giardino ed il non essere riuscito a circoscrivere le sue fughe (i coccodrilli sono eccellenti saltatori) ritengo sia stato – dopo un paio di salvataggi/recuperi avventurosi - ciò che lo ha perduto.

 

Eccolo, legato “come un salame” per prenderne le misure.

Sufficientemente forastico già a questa taglia mangiava pesce fresco a pezzi, pollo (il primo completo di lische il secondo di ossa per garantire un corretto apporto di calcio) e qualche insetto che somministravo di tanto in tanto: apprezzava in modo particolare i grilli. In natura mangia di tutto e la sua dieta include anche, al caso, carogne. Se ne ha la possibilità non disdegna – lecitamente dal suo punto di vista – Homo sapiens.

L’ambiente di allevamento può anche essere molto rustico, non si cura di niente ed è disordinato e brusco nei suoi movimenti: necessita esclusivamente di un punto dove (come tutti gli animali a sangue freddo) riscaldarsi, di un rifugio dove potersi isolare e – ultimo ma non ultimo anche se questa attenzione non è mirata specificamente a lui - di un sistema di filtraggio sovradimensionato e molto efficiente. NON si cura assolutamente della qualità dell’acqua. In Natura frequenta impunemente acque ferme, paludose e spesso malsane (anche le sua resistenza ad inquinanti come i metalli pesanti è sopra la norma). L’accortezza tecnica di un buon filtraggio è quindi dedicata a chi se ne prende cura: l’acqua pulita aiuta a tenere lontani i cattivi odori, insetti vari ed altri ospiti poco graditi (anche se va detto che molti di questi ultimi capito chi soggiorna nella pozza … GIRANO ALLA LARGA).

 

Assiso, sulla sua radice preferita, intento a scaldarsi alla luce del primo mattino. Una attività fondamentale, in Natura, per riavviare il metabolismo dopo la “fredda” pausa notturna. Nel nostro laghetto era anche una sorta di “rito del buongiorno” visto che era posizionato di fronte alla finestra dove facciamo colazione.

 

Immobile, sguardo inespressivo e fintamente assente (col tempo ho appreso, almeno in minima parte, a capire lui ed i suoi simili) “guata” l’ambiente circostante. Pur potendo affrontare periodi di digiuno lunghissimi (da adulto anche molti mesi) non trascura mai la possibilità di “acciuffare” …

A differenza di altri miei ospiti, pinnuti, squamati o corazzati, all’avvicinarsi del pasto (bisettimanale) non dava il minimo segno di interesse o apprezzamento ma, appena giravo gli occhi, scompariva tutto.

Qui mi fermo! Partendo, infatti, dalle “semplici” tartarughe sono arrivato molto (troppo?) lontano. Spero comunque che questo lungo discorso, leggermente scombiccherato, possa risultare interessante. CIAO!

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